VIA PAOLO FABBRI 43 E LA SUA RELIQUIA
"La Reliquia" di via Paolo Fabbri 43 Val Qualido 2020 |
Alberto è un tipo alto, magro ,completamente pelato, timido ed appassionato di montagna. Fa il fisioterapista e, come ogni bravo ed operoso brianzolo, ha due lavori, uno in ospedale e l’altro in “bottega”, che lo tengono occupato per almeno una decina di ore al giorno. Di conseguenza ha costruito in cima ad una collina una villa circondata dal verde di un grande giardino, dove vive con la sua bella famiglia. A volte sembra un po’ stralunato, come se stesse pensando a qualcos’altro, rispetto alla situazione che sta vivendo. All’inizio, quando ci siamo conosciuti, una ventina di anni fa, in occasione della nostra scalata allo Spigolo Vinci del Pizzo Cengalo, aveva anche delle curiosità sulle guide alpine e sugli alpinisti in generale, che mi avevano fatto sorridere.
Per esempio; mi chiedeva come fosse una guida nella vita quotidiana, se anche lei si abbassasse a fare la spesa, se cucinava o se faceva l’orto, se insomma si comportasse da persona normale o se rimanesse chiuso in una sorta di bolla circoscritta al sacro mondo della montagna. Rimase stupefatto quando gli dissi che, non solo avevo cambiato montagne di pannolini ai miei figli, ma che avevo trascorso ore ed ore ad accudirli al parchetto giochi vicino a casa e visto decine di cartoni animati, dai classici della Disney, ai moderni Pixar, a quelli giapponesi. E quando Federico, detto Friz, il primo giorno di scuola si era tirato giù le mutande e mostrato le chiappe alla classe, ero stato prontamente convocato dalle sue maestre…
Laghetto nato dai resti di Via Paolo Fabbri 43 |
Quel giorno di fine settembre scalammo lo Spigolo Vinci in grande scioltezza perché Alberto ha passato la sua adolescenza in Val di Mello, dove suo padre aveva comprato una casa. Da ragazzo era diventato uno specialista dell’arrampicata senza corda per raggiungere le cenge più lontane e ardite in cerca di funghi porcini. In pratica Alberto era già , a sua insaputa, un abilissimo climber. Gli mancava solo la parte più prosaica dell’arrampicata: l’utilizzo della corda…
Come spesso accade tra guida e cliente facemmo altre scalate, tra le quali SelfControl al Precipizio degli Asteroidi ( lui sopravvalutandomi avrebbe preferito la più ingaggiosa Amplesso Complesso) e quella splendida cavalcata che inizia con le Placche del Giardino, prosegue con Il Giardino delle Bambine Leucemiche per terminare con Patabang. Il tutto in una giornata incendiata dalle luci gialle e rosse dei faggi e dei larici in veste autunnale.
“È oro!”, ci dicevamo stupefatti nell’ ammirare quel paesaggio che conoscevamo già come le nostre tasche, ma che è sempre in grado di sorprenderci con la sua bellezza. Nel frattempo, col passare degli anni, suo figlio Luca, che a quei tempi era un ragazzino, è diventato un famoso alpinista, specialista nelle difficili vie estreme della Patagonia, è entrato nella prestigiosa “confraternita” dei Ragni di Lecco e recentemente ne è diventato presidente. Adesso Alberto può vedere come si comporta un alpinista nella vita di tutti i giorni, osservandolo direttamente dal divano di casa.
Ma torniamo alla foto, per me una reliquia, che Alberto mi ha inviato. Sembrerà strano ma, questo vecchio cordino quasi inglobato dalla corteccia di un albero malconcio, caduto per diverse centinaia di metri dalla parete sovrastante, è come una finestra che si è aperta all’improvviso sul tempo che passa e ha fatto riaffiorare una marea di ricordi .
La storia è quella di Via Paolo Fabbri 43, la prima via a percorrere la grandiosa parete est del Monte Qualido che, da quando noi sassisti avevamo iniziato a frequentare la Val di Mello, aveva attratto il nostro interesse e avevamo sognato di scalare. Un bel giorno, io e il mio amico Jacopo Merizzi, che a quel tempo era un vero e giovanissimo portento della arrampicata, decidemmo di “metterci il naso “ .
“Sarà il nostro Capitan” ci dicevamo, immaginando di essere appesi a quella splendida parete, lunga più di un chilometro ed alta fino a settecento metri , percorrerne le fessure, superarne i tetti per poi, a sera, preparare un bivacco attrezzato con le amache, proprio come facevano i nostri lontanissimi “cugini “americani” della Yosemite Valley.
La Relazione della via, dal libro Val di Mello 9000 Metri sopra i prati |
All’inizio, per la verità , il nostro obiettivo era quello di salire lo spigolo che si staglia contro il cielo e che termina sulla monolitica cuspide del Martello del Qualido. Dal fondovalle era , all’apparenza, la soluzione più logica ed elegante, ma quando ci decidemmo a scalarlo scoprimmo che era una illusione ottica perché, man mano che si saliva la Val Qualido per raggiungerne l’attacco, esso si arrotondava e si rimpiccioliva fino a perdersi in una serie insignificante di balze erbose, alternate a brutte placche di granito coperte dai licheni. Scendendo sui nostri passi, notammo nel punto più alto della parete la lunga linea di fessure che avremmo scalato qualche anno più tardi: la via “Il Paradiso può attendere” e, più in basso, una serie di diedri e fessure più abbordabili. Iniziammo da lì e in due giorni aprimmo la via Paolo Fabbri 43 da una canzone di Guccini
, il nostro guru musicale dell’epoca. Il ritornello della canzone “mi laureerò in canti e in vino, qui, in Via Fabbri 43”, rappresentava in maniera plastica la nostra attitudine agli studi universitari.
A dire il vero la nuova via, nella prima parte non era un granché: un diedro molto lungo ma abbastanza infestato da ciuffi d’erba che terminava ad una cengia con un bell’abete dove bivaccammo e dove abbandonammo in segno di passaggio la fettuccia bianca che mai avrei pensato di rivedere in questa foto così tanti anni dopo. La parte superiore della via risultò invece molto bella: una fessura pulita che solcava uno strapiombo e che ci portò a raggiungere la vetta delimitata ad ovest dai ripidi pascoli della val Livincina, dai quali scendemmo verso casa.
Quella fu anche l’avventura più “modello easy rider” che io e Jacopo avessimo fatto..
Con i primi proventi di guida alpina, eravamo usciti freschi freschi l’autunno precedente dai corsi di formazione, avevo comperato la moto : una splendida Gilera 175 di seconda mano che , nonostante non fossi capace di guidare ,mi faceva toccare il cielo con un dito. Modello cross, giustamente rumorosa, con sellino per due persone, era il massimo che potessi immaginare e a me sembrava enorme e potente. Partimmo una mattina da Sondrio confondendoci nel traffico della statale, con le fasce colorate a contenere i lunghi capelli al vento (sic, ormai solo un lontano ricordo). Io alla guida con uno zainone sul davanti a mo’ di marsupio, dietro Jacopo con un altro zainone e via verso la libertà . Noi appartenevamo con entusiasmo e non poca spocchia giovanile ad un altro mondo rispetto a chi quella mattina, incrociandoci, andava a lavorare.
Il nostro eroismo si infranse però ben presto davanti alle facce stupefatte degli abitanti di Filorera che, svegliati dal rombo della Gilera ed affacciatisi alle finestre, la videro rovinare a terra per la mia somma imperizia ad evitare un gatto che ci aveva attraversato la strada. Fu molto umiliante rimettere in piedi la moto sotto lo sguardo severo e al limite del disprezzo dei “valmasinini”. Poi riprendemmo la nostra marcia verso la Val di Mello: “la moto è come la montagna, appena ti gasi, ti punisce” pensai…
L'immarcescibile Jacopo Merizzi a Bologna, nella vera e poco "eroica" Via Paolo 43 |
Di quella salita ricordo ancora una coppia di ghiri giganti dal folto pelo grigio, che vivevano nelle fessure della parete. Ne incontrammo due anche l’anno successivo durante la prima salita di 7 Aprile, erano usciti in contemporanea da una fessura correndo, spaventati dal martellare dei bong (grossi chiodi da roccia), lungo le gambe nude del grande Antonio Boscacci, che in quel momento stava conducendo la cordata e che, da grande domatore di serpenti, non fece una piega. Non ho mai più visto da allora nessun ghiro gigante, peccato.
Siamo ormai in pieno global warming, i ghiacciai si stanno assottigliando sempre più, combinando disastri fino ad ora imprevedibili, basti pensare alla recente tragedia della Marmolada. Ma anche le rocce stanno rovinando a valle: è successo alle Cinque Torri sopra Cortina, alla Torre Venezia nel gruppo del Civetta, mentre nel gruppo del Monte Bianco un grande e perfetto monolite come il Dru, la più bella guglia delle Alpi, ha subito delle frane che hanno cancellato alcune delle vie che hanno fatto la storia dell’alpinismo come la Bonatti e la via Americana. Anche dal Cervino si staccano enormi fette di roccia che ne sconsigliano, a volte, la scalata e qualche anno fa la parte svizzera del Pizzo Cengalo ha scaricato milioni di metri cubi di roccia sulla sottostante Val Bondasca . Una quindicina di anni fa, è successo anche alla nostra Via Paolo Fabbri 43: la sua parte inferiore è rovinata a valle durante una violenta perturbazione e i suoi resti, arrivati sul greto del Mello, hanno formato un laghetto che, in bellezza e grandezza, ha superato il famoso “Bidet della Contessa”.
Il nome di questa storica pozza del torrente Mello è insuperabile per genialità e malizia valligiana, ma come potremmo chiamare il nuovo laghetto che in primavera, sommergendo in parte la fila degli ontani sevatici che corre lungo il sentiero, crea uno degli angoli più incantevoli e suggestivi delle Alpi?
Ci vorrebbe un guizzo di fantasia simile a quella che possedevamo ai bei vecchi tempi del Sassismo, quando davamo il nome alle vie di roccia appena scalate, la cui irritualità ha spesso contribuito alla definizione del marchio di qualità mellico.
Chissà , qualcuno ci penserà , la sfida è aperta…
Per quanto riguarda me e Jacopo , sebbene invecchiati contro ogni pronostico e restaurati in varie articolazioni, tendini e vertebre da sapienti interventi chirurgici, è una bella soddisfazione essere arrivati splelacchiati, ma ancora vivi e vegeti, a sopravvivere ad una delle nostre granitiche vie…
Paolo Masa Masesku
Agosto 2022