Ai bei tempi del Sassismo la maggior parte di noi tifava per “l’estrema”, intesa come estrema sinistra. Più che una consapevolezza politica, ci accomunava all'estrema un vago ribellismo, al quale ci sentivamo naturalmente portati, nonché il “Look” dei protestatari, molto simile al nostro e il fatto che tutto quell'Ambaradam fosse frequentato da un numero quasi infinito di ragazze alternative e sognatrici. Io e Jacopo, per esempio, simpatizzavamo per "Lotta Continua", un gruppuscolo con una gradazione di violenza medio alta, ispiratore di un giornale che, infilato nella tasca della giacchetta, conferiva un certo status ed esercitava un sicuro
appeal sulle matricole universitarie di sesso femminile. Così, quando non eravamo attaccati a qualche parete di roccia e scendevamo a Milano per coltivare i nostri studi (raramente), non perdevamo l’occasione di infilarci in qualche manifestazione o in qualche sciopero, invocando a gran voce la giustizia proletaria.
A quei tempi l’unico sassista proletario che lavorava, perché ne aveva proprio bisogno, era il Tico, che, ovviamente, aveva delle grosse difficoltà a capirci e ci guardava tra il perplesso e lo stupito. Essendo nostro amico, non arrivò mai ad insultarci o a mandarci a quel paese, anche se piegava la bocca in un sorriso che diceva "sti duu" (questi due) "I ga en cul de la madona" (hanno un culo della Madonna) ... Non sanno proprio cosa vuol dire lavorare... In quel periodo il Tico faceva il "
tettaiolo", copriva i tetti delle case con le pregiatissime piode di ardesia della Valmalenco. Il sostantivo con il quale definiva il suo lavoro era decisamente spassoso, incuriosiva le ragazze, soprattutto le turiste, che si divertivano all'idea che ci fosse veramente il lavoro del "Tettaiolo". Ridevano tutte contente e si sa che, quando riesci a far ridere una ragazza, sei già a metà dell’opera… Era per questi due motivi, lavoro e ragazze, che il Tico riusciva ad arrampicare pochissime volte in un anno, anche se questo non sembrava influire sulla sua incredibile bravura di scalatore.
Una delle cose più belle e divertenti del Sassismo fu, sicuramente, l'eliminazione di tutte le gavette e di tutte le gerarchie tipiche del mondo alpinistico; se uno andava, andava, indipendentemente da quanto tempo arrampicasse e da dove provenisse. La prima volta che il Tico si presentò in Val di Mello stupì tutti salendo come un gatto le più dure vie dell’epoca, collocandosi dalla mattina alla sera come uno dei più bravi e temerari sassisti. Su di lui, all'inizio, aleggiò anche un certo alone di mistero, perché nessuno aveva capito dove mai avesse imparato ad arrampicare.
L’arrampicata del Tico era veloce, potente ed essenziale, come essenziale era il suo linguaggio. Ad esempio, durante il “Brain Storming” fatto alla base del famoso tiro chiave di Amplesso Complesso, mentre io e Jacopo ci guardavamo in faccia perplessi e preoccupati, iniziando a fare “melina” su chi dovesse andare da capocordata, il Tico disse: “Cià , vu su me” e si avviò gagliardo e determinato come un cavaliere solitario, verso quel tiro che sarebbe entrato nella leggenda della Val di Mello. Nella chiodatura il Tico faceva uscire tutta la sua arte di Maestro Scalpellino: se c’era da picchiare con il martello un Bong in una bella fessura larga, si era sicuri che con tre o quattro colpi ben assestati quel Bong sarebbe stato una "bomba". Ma la sua arte usciva ai massimi livelli quando chiodava le infide e delicate scagliette superficiali di granito, che spesso si rompevano, e lui le trattava come delle pietre preziose, colpendo i chiodi con la precisione chirurgica di un orologiaio.
All'inizio della mia carriera di Guida Alpina il Tico mi ha dato una bella mano e spesso, quando dovevo affrontare con i clienti una via particolarmente
ingaggiosa, gli chiedevo se voleva venire con me. Così con il Tesserone (Enrico Tessera) di Lodi, un sadico cliente amante delle più grandi e pericolose pareti alpine, andammo a fare il Pilone Gervasutti al Monte Bianco, una via aperta dal “Fortissimo”, che sale poche decine di metri a destra del Pilone Centrale del Freney. Nonostante fossimo degli outsider e la via fosse rarissimamente ripetuta (infatti a quei tempi non contava più di una manciata di ripetizioni), ce la portammo a casa in grande bellezza.
Un po' perché mi dava una mano, un po' perché ci aveva preso gusto, alla fine scalammo assieme un bel numero di pareti e i ricordi che ho nella mente sono nitidi come fossero capitati ieri. Un giorno di giugno di inizio anni '80, sempre con il “Tesserone”, scalammo la parete nord dell’Aiguille Blanche e alle otto del mattino eravamo già in vetta a goderci lo spettacolo, ignari della discesa (epica) che ci aspettava: avremmo attraversato entro sera uno dei luoghi che apparteneva alla storia più “sacra” e drammatica dell'alpinismo. Iniziammo a scendere le selvagge Rochers Gruber, quelle della tragedia del Pilone Centrale, strette da una minacciosa morsa di seracchi pensili, proseguimmo "a nuoto" attraverso il Ghiacciaio del Brouillard per aggirare dei terrificanti crepacci ricoperti da un metro di neve fresca, per poi risalire su fino al Colle dell’Innominata. Essendo inizio stagione, il Rifugio Monzino era ancora chiuso e scendemmo fino a Courmayeur, in un accumulo interminabile di ore di cammino.
Dalle nostre parti, invece, sui camini finali della Via Cassin alla nord-est del Badile, Tico impressionò una serie di cordate che andavano a rilento, superandole con una veloce “conserva” di 150 metri, finché una cordata di spagnoli gli gridò “Monta la reunion, lochito!” Fai la sosta...lochito...!" Il Tico li guardò in silenzio, con l’occhio del giocatore di scopa che si siede al tavolo con dei principianti e tirò avanti. Per lungo tempo, quando alla sera ci trovavamo al bar, incrociavamo i bicchieri di birra brindando al motto "Monta la reunion, lochito" e a me tornavano in mente, come in una fotografia, le espressioni frastornate dei due climber spagnoli.
Più che sintetico il suo linguaggio poteva definirsi essenziale, così spesso le sue frasi si trasformavano in veri tormentoni. Per esempio, visto che la gradazione delle difficoltà alpinistiche lo infastidiva, aveva introdotto la sua personale classificazione delle scalate che in dialetto Malenco veniva espressa in due gradi: “El Bell” (si passa) e “El Brutt” (non si passa). Quindi, secondo il suo punto di vista, “El Bell” arrivava fino al settimo grado, difficoltà che lui superava con naturalezza. Abituato com'era a lavorare sui tetti delle case in tutte le condizioni atmosferiche, il Tico era abbastanza indifferente anche alle condizioni della roccia. “Sucia u bagnada (asciutta o bagnata) l’è stess, basta che la sia pulida (basta che sia pulita)” era la sua simpatica sentenza, che a noi evocava tessuti più morbidi ed intriganti della dura roccia, prima di affrontare dei tratti di roccia bagnata. Una delle sue frasi più belle fu comunque quella risolutiva che pronunciò un giorno sulla Taldo-Nusdeo al Picco Luigi Amedeo, dove venimmo travolti da un uragano estivo che trasformò la ripida parete in un turbolento fiume verticale, nel quale pensavamo di naufragare. Il cliente che avevamo con noi si era chiuso in sé stesso e, rassegnato al peggio, se ne stava rannicchiato contro la roccia, esausto. “Non devi piangere, devi salire!” gli disse il Tico con il suo vocione e la sua frase funzionò come una scossa benefica sul poveretto che, in qualche maniera, riprese ad arrampicare fino alla vetta, dove la violenza del temporale andò ad esaurire.
Andammo anche a visitare le ripide pareti dolomitiche della Valle d’Ambiez, salendo due vie bellissime: “Bollicine” e la “Via della Soddisfazione”, poi la nostra associazione alpinistica andò ad affievolirsi. Lui era passato ai lavori in esposizione che lo portavano spesso via per mesi. La forza, l'abitudine al vuoto e l'occhio sul lavoro lo trasformarono ben presto in un leader. Tutti i suoi colleghi riconoscevano in lui un vero "Working class hero", ammirato e benvoluto, tanto che lavorare nella sua squadra veniva considerata una preziosa credenziale. Nonostante la lontananza, la nostra amicizia non si affievolì mai, così come il piacere di trovarci a raccontarcela davanti a un "bel cales de vin". Entrambi diventammo papà e ricordo ancora di averlo visto con uno sguardo di orgoglio incontenibile, mentre portava il piccolo Giacomino a tracolla, infagottato in un marsupio...
Come per un’inconscia volontà di non affrontare la vecchiaia dopo avere vissuto una vita intensa, molti grandi scalatori chiudono con degli incidenti banali la loro vicenda umana, prima che la parabola dell’esistenza tenda a declinare. E’ successo a John Bachar, il più grande precursore della scalata senza corda sulle dure fessure yosemitiche, a Kurt Albert, uno dei padri dell’arrampicata moderna europea, al grandissimo Edlinger, l'icona del free-climbing degli anni '80. Purtroppo è capitato anche al nostro Tico, nel primo pomeriggio di una afosa giornata di agosto di quest'anno, mentre stava attrezzando una nuova via ferrata sul Torrione Porro, in Valmalenco. "En sera sul bell" (eravamo sul facile), mi ha detto suo fratello Vito, che stava lavorando con lui e che alzati gli occhi, dopo avere sistemato un gradino di ferro nella roccia, non lo vide più nelle vicinanze. Questa volta "El Bell" aveva tradito il Tico, portandolo via per sempre dalla Rosaria, la donna della sua vita, dal giovane Giacomo, di cui era tanto orgoglioso, al quale aveva trasmesso la passione per l’arrampicata e da tutti i suoi amici, ai quali aveva sempre regalato la sua grande e piacevole simpatia.