IL TESSERONE: UNA VECCHIA STORIA QUASI EROICA
Nell’immaginario collettivo la
guida alpina è vista o come un burbero Nonno di Heidi, che guida lo sprovveduto
turista attraverso bufere e crepacci, oppure come un supereroe che,
attaccandosi ad un appiglio sull’orlo di un burrone, salva la bella ragazza
che, per una imperdonabile leggerezza, ci stava precipitando. In entrambi i
casi il cliente ne esce come un sognatore incapace, con la
predisposizione a mettersi nei guai.
Inizio anni 80: il Tesserone e "neanide" di Masesku |
Piz Palù Parete Nord, al centro lo sperone Bumiller |
Inutile dire che questa richiesta del Tesserone mi aveva
fatto toccare il cielo con un dito e il trasbordo dalla mia piccola cinquecento
alla sua imponente Volvo Station Vagon, con una serie di comandi e di
quadratini luminosi che mi ricordavano la plancia di un aeroplano, che lui
guidava tenendosi costantemente sulla corsia di sorpasso, curve comprese, fu per
me una sensazione superlativa. “Allora i sciuri esistono per davvero” era il
pensiero che mi frullava per la testa, quando, prima di prendere la funivia del
Diavolezza, deviammo per Livigno per pranzare e per comperare delle bottiglie
di alcool da portare a due sue ziette zitelle ma anche le sigarette per me: una stecca
di Camel senza filtro dal pacchetto giallognolo.
Il giorno successivo il tempo non era buono e il Pizzo Palù era coperto fino a metà da una coltre grifagna di nubi, dalle quali scendeva una sottile ma intensa nevicata. “E’ solo una buferina”, sentenziò il Tesserone che voleva partire a tutti costi. Io ebbi paura, a fatica lo convinsi a rimandare il nostro programma di una giornata e, in alternativa, tenendoci sotto la linea delle nubi, facemmo una gita verso il Passo Bellavista, salendo dei ripidi pendii ghiacciati proprio sulla sua verticale. Scalammo anche dei seracchi a mo’ di allenamento con le nostre favolose piccozze: la Peck a forma di artiglio e la Gabarrou a forma di falce che, da pochissimo tempo, avevano dato inizio alla Piolet Traction, la nuova efficace tecnica di scalata su ghiaccio, che aveva messo in soffitta la meno redditizia, faticosa e lenta progressione del gradinamento…
La mattina successiva partimmo nel cuore della notte stellata e sulla Bumiller trovammo meno difficoltà di quelle che ci eravamo aspettati, in sei ore dal rifugio raggiungemmo la vetta e da quel giorno, per me memorabile, il nostro sodalizio durò per qualche anno.
Pur essendo io la guida, il Tesserone fu per me un vero
maestro, io sapevo scalare e, come diceva lui, anche se ero uno di quelli che
andava in montagna “cui scarpett del tennis”, avevo anche il concetto della
neve e del ghiaccio, sempre presenti sulle grandi vie di “misto”, la sua vera
passione. Però ero un perfetto ignorante, non sapevo nulla della storia
dell’alpinismo a cui il Tessera si ispirava e soprattutto ignoravo il grande
gruppo montuoso del Monte Bianco, il vero banco di prova degli alpinisti .
Le “Buferine”, come le chiamava
lui, erano la specialità del Tesserone, nel senso che, oltre che dalle vie
pericolose, era attratto dalle previsioni meteo incerte e, quella che avevamo
evitato sulla Parete Nord del Palù, ce la andammo a beccare d’inverno sullo Sperone della Brenva, al Monte Bianco. “Guarda che io non so nemmeno dove si trovi
questo sperone” gli dissi:” Non ti preoccupare, ci penso io “ fu la risposta.
Così ci trovammo all’inizio di febbraio nel bel mezzo dello Sperone della
Brenva, in una livida giornata di vedo e non vedo, circondati da enormi colate
di ghiaccio grigio-verde, che toglievano il fiato. La via in sé non fu
difficile, ma l’ambiente era veramente grandioso ed opprimente. Quando
arrivammo alla fine della salita, sui dossi nevosi del Colle della Brenva, prima
di perderci nel whiteout della discesa, prendemmo la saggia decisione di
tornare al Rifugio Torino seguendo le nostre tracce e scendemmo dalla via che
avevamo appena salito. Quell’inverno, verso fine marzo salimmo anche il Couloir
Jager al Mont Blanc de Tacul, a destra del più celebre Couloir
Gervasutti, che il Tesserone aveva già salito con la famosa guida e
ghiacciatore Gian Carlo Grassi. Questa volta era una splendida giornata, così,
dopo avere raggiunto la cima, percorremmo in discesa la Via Normale del Bianco
e poi, di nuovo fino al Rifugio Torino. Lì mi resi conto che, se la volta
precedente l’avessimo intrapresa senza la minima visibilità , ci saremmo
sicuramente persi, per finire congelati in qualche anfratto di ghiaccio….
Parete Nord dell'Aiguille Blanche |
Fu
bel tempo anche quando andammo a fare la Nord dell’Aiguille Blanche, ormai
stavo imparando a difendermi ed accettavo l’ingaggio del Tesserone solo con
previsioni meteo a prova di bomba. Quella volta venne con noi anche il mio
amico Tico Olivo, col quale avevo trascorso l’infanzia nei prati di Vassalini,
in Valmalenco, che faceva cordata con Sandrino, un ragazzo del nostro paese,
detto il Dutur. Alle otto di mattina eravamo già sulla vetta di questa
splendida e remota cima, che fa parte dell’interminabile Cresta di Peuteret. La
cosa più rischiosa della giornata fu la notte al Rifugio Ghiglione, la cui
struttura, arroccata su un ripido pendio tra roccia e neve, pendeva
pericolosamente verso valle e nel quale il pernottamento era vivamente
sconsigliato. Anche la discesa verso casa, iniziata calandoci dalle Rocher
Gruber, fu un’esperienza elettrizzante. Non solo per i minacciosi seracchi che
le circondano, ma anche per la ricerca dei cordini degli ancoraggi, che
dovevamo liberare dal ghiaccio con la becca della piccozza. Su più di una
calata non riuscimmo a stabilire la qualità dei chiodi cui ci affidavamo,
confidando nell’azione cementante del ghiaccio …. La concezione della”
sicurezza” era ancora anni luce da quella odierna. Impegnativa fu anche la
traversata del tormentato Ghiacciaio del Freney, percorso da impressionanti
crepacci di cui non riuscivamo a intuire il bordo, a causa di una alta coltre di
neve fresca. Stavamo attraversando uno dei luoghi più sacri dell’alpinismo, dove,
nel luglio del 1961, avevano trovato la morte alcuni tra i più forti alpinisti
dell’epoca, travolti dalla tragedia del Pilone Centrale del Freney. L’ambiente
e la storia mi facevano sentire piccolo, talmente piccolo da non meritare di
morire in quell’angolo grandioso di montagna. Raggiungemmo il Colle
dell’Innominata dove era morto Andrea Oggioni, amico e compagno di cordata di
Walter Bonatti, poi giù, in un’interminabile susseguirsi di ore fino alla Val Veny
e a Courmayeur. Era metà giugno ed il Rifugio Monzino, dove avevamo sognato di
fermarci, non era ancora aperto.
Il Ghiacciaio del Freney sormontato dalle Rocher Gruber, più in alto i Piloni. Da le Journal de Neon |
Oltre che a maestro di storia e
geografia alpinistica, il Tesserone fu anche un grandissimo maestro di cinismo,
categoria morale che esercitava con disinvoltura e col sorriso sulle labbra.
Lui era un alto funzionario della sanità lombarda, probabilmente era il numero
uno, ma su questo non si era mai palesato, mantenendo un alone di mistero sulle
sue vere funzioni. Da quello che avevo capito la sua “mission” era quella di
mettere “sul terreno” le direttive dei politici, di conseguenza il suo potere
era enorme. “Vedi”, mi diceva con la sua voce in falsetto che contrastava con
la sua possente mole, “Davanti al mio ufficio ho sempre la coda dei primari di
medicina che si arruffano per avere i fondi per comperare questo o quel
macchinario all’avanguardia, poi c’è la coda delle dottoresse che vogliono far
carriera ed infine quella delle infermiere che invece vogliono cambiare
reparto…” ed io lo vedevo già avere un occhio di riguardo nei confronti delle questuanti
femmine…
La Volvo Station Vagon del Tesserone |
La P38 del Tesserone |
IL Tesserone si vantava di avere
fatto le scuole dai preti ed era felicissimo di essere stato allevato in un
collegio dei Barnabiti, assieme ai rampolli della buona borghesia lombarda, in
procinto di diventare la classe dirigente della regione più ricca d’Italia.
Anzi, dichiarava che raggiunti i sessantacinque anni, età che lui stimava ormai
scevra da ogni tentazione, si sarebbe fatto raccomandare dai preti per trovare
un convento nel quale ritirarsi a studiare. Nonostante io condannassi con
veemenza questo suo attaccamento al clero, il fatto mi faceva ridere ed in un
certo senso mi affascinava. Il periodo nel quale ci frequentavamo era
decisamente movimentato: da una parte c’era il terrorismo che non si faceva
mancare nulla, perché c’era sia quello rosso che quello nero, dall’altra
l’Anonima Sequestri che imperversava con i rapimenti di persona. Un giorno
rapirono un suo compagno di collegio e la famiglia di questo, prostrata e
spaventata, aveva delegato il Tessera a fare da intermediario. Quando il
rapitore calabrese lo chiamava al telefono si presentava dicendo ”Qui
Scania..”. “Ah, ciao Scania, come va? Allora abbiamo una moglie o una vedova?” era la risposta del Tesserone, in un distillato di vero cinismo.
Intanto la nostra attività alpinistica continuava, niente di
estremo, ma salite sempre di carattere e mai banali. In un inverno di poca neve
scalammo la lunga cresta che dal Passo Cassandra porta con una serie
interminabile di anticime in vetta al Monte Disgrazia, dove dormimmo nel Bivacco Rauzi sepolti da quintali di fredde coperte di lana. In seguito
partimmo per la traversata Scerscen-Bernina. Sulla vetta dello Scerscen,
durante una pausa, a causa di una distrazione, lo zaino del Tesserone precipitò
lungo la parete raggiungendo il Ghiacciaio dello Scerscen, 900 metri più in
basso. Per recuperarlo rinunciammo a salire sulla vetta del Bernina e scendemmo
lungo la “Direttissima” che era in condizioni favolose. Sembrava che la
specialità del Tesserone, oltre ad affrontare le sue famose “Buferine”, fosse
quella di fare in discesa delle vie che solitamente vengono percorse dagli
alpinisti esclusivamente in salita. Quella volta il Tesserone contestò anche la
mia prestazione professionale perché la sua richiesta era stata la traversata
da Porta Roseg al Bernina, mentre io, nel cuore della notte mi ero confuso ed
ero salito per il canalone Gussfelt, che taglia fuori sulla destra per poche
decine di metri Porta Roseg. Per questo mio errore dovetti fargli ben 100 mila
lire di sconto….
Roseg Scerscen Bernina |
La nostra conoscenza si fece via via più intensa e lui
cominciò ad utilizzarmi anche
come copertura per le sue "fuitine". Ad un certo
punto quando il mio ruolo di copertura cominciò ad essere sempre più sfruttato
un giorno pensai di ricattarlo :“Non credere che questo sia del tutto gratuito, i servizi si
pagano….” A forza di frequentare il
cinico aspiravo anch’io a diventare tale e ad ottenerne qualche beneficio,
senza rendermi conto che, nei suoi confronti, non ero altro che un pivellino. Lui
non si scompose: “Caro ragazzo che viene dalle montagne” mi disse con la sua
vocina in falsetto” Vedi, io parcheggio sempre la mia auto nel bel centro di
Milano, a due passi dal mio ufficio. Va da sé che il parcheggio è abusivo ed io
sono diventato amico dei gestori calabresi. L’altro giorno, il capo mi ha
detto: Dotto’, se mai avesse bisogno qualcosa, noi siamo sempre a sua completa
disposizione. Per dire: un meschinuzzo aveva osato disturbare un nostro
cliente, una brava persona come lei. E sa cosa gli capitò? Si ruppe le gambe
cadendo dalla finestra, mentre la sua casa si era messa a bruciare…”.
“Scherzavo Tesserone, continua pure ad usarmi come copertura” dissi chiudendo
la questione.
Il Pilone di destra con la via Gervasutti-Bollini Foto Joe Tasker/Mountain |
In montagna, intanto si andava alla grande. Una mattina
prendemmo l’elicottero da Courmayeour per puntare dritti al Colle di Peuteret,
che raggiungemmo con un bellisssimo volo di 5 minuti. La giornata era splendida
e sotto di noi scorrevano velocemente, come in un film, i ghiacciai tormentati
dai crepacci e le vertiginose pareti del Pilier d’Angle e della Brenva. Quando
atterrammo al colle fummo contestati da alcune cordate che si avviavano a
salire la Cresta di Peuteret e che erano in marcia da almeno uno o due giorni.
“Come dargli torto” pensai tra me e me, ricordando il mio candido lettino nel
quale avevo dormito fino a poco più di un’ora prima. Il Tesserone, facendosi
scudo della sua lieve sordità , che nei momenti opportuni sfruttava come un optional,
non sentì nessuna maledizione lanciataci da quegli alpinisti, ma passò accanto
a loro con sdegno e superiorità , del tipo “non ti curar di loro, ma guarda e
passa”. Quel giorno ci portammo a casa La Gervasutti-Bollini al Pilone di
destra, una via aperta dal Fortissimo nel 1940 che, quando la scalammo,
contava solo cinque ripetizioni. Pur essendo una via che si svolge in un posto
spaziale, è quasi sconosciuta perché soffre della vicinanza del più blasonato
Pilone Centrale del Freney, sul quale le cordate salivano ad un
centinaio di metri sulla nostra sinistra.
Monte Bianco versante Brenva, al centro la Via Poire Foto CAAI |
Quando si scende da questo colle nel Bacino della Brenva, una
strana atmosfera carica di elettricità comincia a pesare sopra la testa. Si ha
come la sensazione di sfuggire ad un boia invisibile che si è momentaneamente
distratto. Centinaia di metri più in
alto appoggiano in equilibrio instabile, come una enorme ghigliottina, migliaia
di metri cubi di ghiaccio che potrebbero staccarsi in qualsiasi momento. Uno
di questi è il primo mattino, quando sulla cima della parete,
millecinquecento metri più in alto, spuntano i primi raggi del sole e le grandi
frane di ghiaccio che si è costretti ad attraversare ai suoi piedi, stanno lì
come un monito, in una sorta di “terra di nessuno”. Quel mattino andò tutto
liscio e velocemente raggiungemmo la base delle rocce della famosa Pera, idealmente,
ma non so quanto praticamente, protetti dalla caduta dei seracchi. La parte di
roccia, minuziosamente descritta nei resoconti di Graham Brown, il primo
salitore, talmente dettagliati e drammatici da essere quasi disorientanti, mi
sembrò più che abbordabile. Alla fine, sia per lunghezza che per difficoltà a
me era sembrata non molto dissimile dal Torrione Porro, una umile salita della
mia Valmalenco, che avevo fatto numerose volte durante gli anni del liceo, a
volte con gli scarponi, altre con le scarpe da ginnastica e spesso in
solitaria. “Siamo arrivati al Picciolo, possiamo fermarci per fare colazione”
disse il Tesserone, quando la parte di roccia terminò. Mangiammo qualcosa, ma
quel senso di precarietà che mi ronzava nella testa fin dal mattino presto non
si attenuava e mi stringeva la bocca dello stomaco, soprattutto se buttavo
l’occhio verso la quinta di seracchi qualche centinaia di metri sopra di noi.
Fu in quel momento che mi resi conto di essere in un posto veramente pericoloso
e mi sentii al sicuro solo qualche ora dopo, quando fummo sulla vetta del Monte
Bianco. Scendemmo dalla via normale ed arrivammo in tempo per prendere una delle
ultime funivie che da Punta Helbronner ci portò a Courmayeour. Mai un
parcheggio di una funivia mi era sembrato il posto più idilliaco della terra
come quella volta. Dall’inferno della Poire, sulla quale però quel giorno non
si era mosso neppure un sassolino, al paradiso delle comode poltrone della Volvo
del Tesserone. Scendendo in macchina dalla Valle d’Aosta mi porse una guida del
CAI, dove la Via della Poire era descritta in toni paurosi. “Non te l’ho fatta
leggere prima perché altrimenti non saresti venuto e saresti rimasto nella tua
sperduta valle a fare lo zio…” concluse il Tesserone “…e non ti saresti portato
a casa questa via leggendaria”.
Le vie del versante Brenva Foto CAI |
A differenza di quasi tutti i clienti che si affezionano alla
propria guida, tenendosela buona per tutte le loro avventure in montagna, il Tesserone
iniziò a un certo punto a tradirmi cercando qualcuno che costasse meno di me. Così il nostro
sodalizio si sciolse e quello che rimase furono dei bellissimi ricordi e tante
lezioni di vita che ebbi in eredità . A parte la Nord del Cervino che aveva
salito con il blasonato Marco Barmasse di Cervinia, ero orgoglioso che gran
parte della sua attività alpinistica più significativa l’avesse comunque fatta con me.
Ho solo il rimpianto di avere, per pura spocchia, rifiutato di salire il Monte
Bianco dalle Rocher de la Tournette, una via ottocentesca ormai poco
frequentata perché lunghissima e priva di rifugi intermedi, che invece
costellano le affollate vie normali del versante francese. Ritenendola priva di
interesse tecnico, ma solo una interminabile sgamellata, mi rifiutai di
accompagnarlo e devo dire che, a distanza di molti anni, me ne trovo veramente
pentito. Era solo una “Via normale”, ma col senno di poi so che sarebbe stata
una di quelle scalate memorabili, che si ricordano per tutta la vita. Mi
sarebbe piaciuto fare anche una via dalle parti delle Courtes e delle Droites,
ma non si presentò più l’occasione. Avendo vent’anni più di me, il Tesserone ha
superato alla lunga gli ottanta, senza perdere un filo del suo cinismo: “Sono
stato alla Porro con la Clara”, la moglie, santa subito:” Speravo morisse ed
invece è tornata ancora viva…. “Una volta all’anno, durante l’inverno, si
presenta nel mio Bar sulle piste di sci del Palù, in compagnia di qualche
premurosa badante di svariati lustri più giovane di lui. “Tesserone, a questa
età non dovevi essere in convento a studiare?”. Se il suo fisico ha iniziato ad
accusare l’usura del tempo, nel suo sguardo si è conservata la luce ironica ed assassina
di quando sentenziava: ”Quando ci passo sotto io, i seracchi non crollano!”.
Poi avvicinandosi al mio orecchio intona una delle vecchie canzoni
rivoluzionarie che si divertiva sentire nelle nostre antiche trasferte e mi
dice “Anche tu ormai sei un comunista che ha sposato il capitalismo ….” L’unica
nota negativa è che si è convertito alle ciaspole, che ai suoi piedi sono un
evidente sintomo di decadenza e a me viene in mente quella mattina di
tantissimi anni fa quando con la sua Volvo salivamo una curva in contromano
sulla strada del Bernina, rischiando di schiantarci contro un trattore agricolo
carico di fieno. “Cosa fa questo svizzero in giro a quest’ora?” era stato il
commento del Tesserone, pronunciato con la sua indimenticabile voce in
falsetto….
Paolo Masa
Guida Alpina
Maggio 2021